Riflessioni del prof. Rolando Mancini presidente del CUM parte 1

Il presidente del CUM, in occasione di due importanti convegni rispettivamente a Napoli e a Milano, interviene a proposito dei nuovi risvolti riguardo la Musicoterapia in Italia

Lei è il Presidente del CUM, l’ente che si occupa della battaglia per il riconoscimento della Musicoterapia in Italia, ci dica cosa l’ha spinta a farsi portavoce  di un movimento che sta crescendo silenziosamente ma costantemente.

 

Per ragioni storiche, Culturali e sociali molto complesse che possono in parte riferirsi alla crisi dei modelli prevalenti, molto si è diffuso il ricorso alle cosiddette pratiche terapeutiche “alternative”. Senza voler entrare nel dettaglio di questi problemi, va da sé che, oggi, vi è un bisogno diffuso di visioni complessive che un tecnicismo non sempre umanizzante appare non soddisfare.

 

La musicotersposta , pur sicuramente collocandosi in una visione olistica dell’essere umano ,non e’ collocabile nell’ambito delle pratiche mediche “alternative” per le seguenti ragioni:

 

a) “Alternativo” vuol dire letteralmente “al posto di qualcos’altro” e la musicoterapia non si pone in antitesi ad alcun tipo di intervento medico o risocializzante o psicoeducativo

 

b) Essa nel momento in cui non si colloca nell’ambito del ristretto intervento terapeutico non puo’ essere considerata una pratica medica alternativa

 

c) Nei corsi di formazione per musicoterapisti non autoreferenziali  vengono date informazioni sulla  l’Antropologia Culturale, la Sociologia, la Psicologia Sociale e di Comunità, la Psicologia dello Sviluppo  ed altre discipline prevalentemente dal punto di vista storico; questo non per fornire competenze in queste aree ma per inquadrare, nell’ottica ermeneutica, la musicoterapia tra le discipline umanistiche.

 

d) Nel momento in cui la prassi musicoterapica ha sempre lavorato avendo la massima disponibilità ad essere testata e valutata secondo metodiche condivise dalla Comunità scientifica (esistono molti studi rigorosi pubblicati in questo ambito) questa prassi si colloca del tutto nell’alveo delle metodiche potenzialmente “ufficiali”

 

 

 Nella maggior parte dei luoghi e dei dispositivi deputati alla costruzione del senso di appartenenza alla Comunità come le scuole o anche negli spazi della cura, della riabilitazione e della socializzazione dell’handicap fisico, psichico e sociale troviamo operatori che con la più varia qualifica pongono in atto degli interventi che prevedano l’uso sistematico di quelle che solitamente nella nostra Cultura definiamo musica e che non hanno come scopo principale la formazione tecnica (finalità ovviamente lecitissima per una progetto scolastico, accademico o di acquisizione di competenze finalizzate all’inserimento lavorativo o anche semplicemente per il piacere di accrescere il proprio saper fare) ma si pongono invece, in maniera esplicita, come interventi francamente “terapeutici” finalizzati al miglioramento delle relazioni e ad una migliore modulazione del proprio mondo emozionale.

 

In particolare non è facile  trovare una scuola, un centro diurno o una Comunità terapeutica che non abbia un laboratorio espressivo in cui si realizzino procedure riferibili alla musica con la finalità di creare un migliore clima relazionale.

 

A fronte di questa enorme diffusione di metodologie musicoterapiche così evidentemente importanti nella pratica sociale e clinica, se si verifica la formazione nello specifico settore degli operatori che realizzano questi interventi si scopre che nella maggior parte dei casi non vi è stata alcuna formazione specifica nel campo.

 

Sono ben pochi gli operatori infatti che abbiano frequentato dei corsi approfonditi che formino all’uso della musica nel settore dello sviluppo della capacità relazional(i)e tout court o del franco disagio.

 

E’ ovvio infatti che per condurre un gruppo di bambini delle elementari “normodotati” come anche di utenti affetti da schizofrenia o da altre forme di handicap tramite forme espressive sonore, quando lo scopo principale non è rappresentato dall’addestramento tecnico ma la consapevolezza di sé stesso all’interno di un sistema di relazioni, avere una formazione come musicista o come psicoterapeuta non rappresenta una condizione né necessaria né sufficiente in sé e per sé, ma occorra altresì una specifica preparazione sull’uso della musicoterapia in quel determinato contesto.

 

Vorremmo fare riferimento non solo alle situazioni in cui queste metodiche trovano un’utilizzazione di livello in qualche modo non adeguato ma anche alle molte situazioni in cui queste metodiche, pur essendo acclarata la loro utilità, vengono ancora poco sfruttate in tutte le loro potenzialità.

 

Queste considerazioni valgono non soltanto per le situazioni precedentemente descritte ma altresì per quei contesti particolarmente impegnativi anche per gli operatori e che riguardano soggetti affetti da patologie croniche o in fase terminale.

 

La figura professionale del musicoterapista non e’ quindi necessariamente rappresentata da tecnici del settore musicale e neanche da terapeuti o terapisti nell’accezione tradizionale (medici, psicologi, fisioterapisti,etc.).

 

Nel campo della musicoterapia si è consolidata un’esperienza anche in queste situazioni difficili per le quali la possibilità di esperienze comunque di benessere rappresenta un intervento di particolare spessore da parte di operatori specifici che abbiano alle spalle un periodo formativo adeguato, un altrettanto adeguato tirocinio e siano vincolati ad un costante aggiornamento.

 

Come è del resto comprensibile , vista la pressoché totale assenza di un quadro legislativo generale, nei paraggi di queste realtà di grande spessore assistiamo all’organizzazione di una pletora di Corsi che rilasciano improbabili Diplomi dopo folgoranti iter formativi in alcuni casi anche di solo poche decine di ore, mentre, solo per fare un esempio, nessuna delle realtà formative che possiamo considerare credibili nel settore rilasciano alcun attestato di formazione prima di almeno tre anni di regolare iter intrapreso e solo dopo aver acquisito almeno un Diploma di Scuola Media Superiore.

 

Ci troviamo pertanto in questa situazione paradossale, e cioè che l’insieme di metodiche più diffuse in campo riabilitativo e risocializzante (i cui operatori sono peraltro spesso quelli più a contatto con l’utenza)  siano quelle meno regolamentate e quello in cui, allo stato attuale, vi è più confusione tra chi opera seriamente e chi ha fatto dell’ approssimazione  il suo sistema di riferimento.

 

Pertanto, da come si evince da questo sia pur sommario inquadramento, lo spazio che nella stragrande maggioranza dei casi rappresenta il dispositivo quantitativamente più attivo nella socializzazione e nella risocializzazione dell’handicap è anche quello a cui le Istituzioni Pubbliche attualmente richiedono meno serietà e rigore.

 

Non diversa è la situazione in ambito educativo, capitando spesso che, ad esempio nelle scuole, ci si affidi ad improbabili operatori “animatori” di interventi di mediazione culturale o di stimolazione della comunicazione tra  scolari e gli studenti , senza che questi operatori abbiano alcuna formazione sulla gestione delle emozioni e delle complessità relazionali che si attivano nei gruppi.

 

Da molti anni operatori qualificati nel settore della cura e della promozione umana nella sua accezione più ampia (e quindi non solo riabilitativo e risocializzante ma anche dell’educazione allo stare bene con sé stesso e con gli altri) hanno messo a punto un insieme di metodiche di intervento sul disagio, partendo dall’idea che la musica rappresenti da sempre un medium per la risoluzione dei più svariati conflitti (non solo tra soggetti ma anche interpersonali).

Questo processo di crescita, avvenuto peraltro anche grazie al continuo confronto con esperti di ambito internazionale, ha portato alla sistematizzazione di metodologie di intervento che, come abbiamo prima sottolineato, non sono da considerarsi “alternative” alle metodologie attualmente codificate da Leggi dello Stato per la semplice ragione che in questi anni sono stati raccolti dati verificabili e pubblicati in molte riviste scientifiche sull’efficacia della musicoterapia.

 

Questo insieme di metodiche non vanno considerate nemmeno però necessariamente “mediche” o “psicoterapeutiche” perché possono essere utilizzate anche per semplici fini di stimolazione delle capacità creative e di socializzazione dell’individuo e perché, in caso di loro utilizzo in ambito clinico necessitano di una diagnosi e di una prescrizione che comunque deve restare di pertinenza di un operatore sanitario che abbia la qualifica adeguata e possono pertanto realizzarsi in questo ambito solo all’interno di un progetto multidisciplinare e multiprofessionale.

 

Sono queste le ragioni per le quali la musicoterapia non rientra tout court nella categoria delle Professioni Sanitarie ma si pone in un’area sociosanitaria di confine  fortemente caratterizzata dalla dimensione Culturale ma soprattutto Ambientale e che ha come fine principale il benessere individuale e collettivo visto come necessità di appartenenza ad un sano ecosistema relazionale.

 

Per essere più precisi e facendo degli esempi concreti, dovremmo chiederci: un adeguato intervento di musicoterapia in una Scuola o in un ambiente lavorativo, quanto fa risparmiare alla collettività in termini di minor disagio e di minore emarginazione a medio e a lungo termine e  per questo anche in termini di spesa pubblica?

 

Esistono molti studi che dimostrano che quando si crea un ambiente di lavoro vissuto come più accogliente, diminuiscono, ad esempio fenomeni come l’assenteismo, per non parlare dei vantaggi nella prevenzione del burn out.

 

Per questa ragione tra le finalità della musicoterapia vi è anche la ricerca, intesa sia come valutazione del miglioramento della qualità della vita ma anche, appunto, in termini di risparmio dei costi sociali misurabili anche economicamente, a medio e a lungo termine .

 

Questa riflessione , in linea con la proposta sociosanitaria, si propone fondamentalmente di intercettare e valorizzare fenomeni “reali”, attivi e radicati nelle nostre società ormai da molti decenni.

 

In tutta quell’area geopolitica che siamo abituati a definire come “mondo occidentale” e non solo, da vari decenni e per complesse ragioni sociali, culturali ed economiche, si stanno diffondendo dei metodi di aiuto, sostegno, prevenzione del disagio e consolidamento del benessere, definibili all’interno di una complessa e dinamica costellazione.

 

I principali obiettivi (punti) di questa costellazione di metodi possono essere definiti come:

 

1.      un superamento della dicotomia mente-corpo

 

2.      un occuparsi non solo della persona francamente malata ma anche della persona “sana”, con finalità peraltro non solo preventive ma anche di consolidamento del “benessere” che viene sempre più inteso sia come diritto individuale che come dovere sociale  tanto che si è aperto un dibattito mondiale sull’inserimento del livello di benessere  degli individui nel famigerato PIL.

 

3.      un considerare con particolare attenzione la dimensione culturale del soggetto, ritenendola un aspetto fondativo e non secondario per la persona e presupponendo l’idea che ognuno di noi è costantemente in relazione dinamica con più modelli culturali

 

4.      un considerare sempre come punto di partenza una visione ecologica del soggetto, ovvero una visione sia unitaria che molteplice, la quale non possa prescindere anche dal sistema complesso di relazioni in cui la persona vive

 

5.      il considerare necessario per migliorare la qualità della vita delle persone, fare leva soprattutto sulle risorse e competenze proprie del soggetto nella loro accezione più ampia e, in questo ambito, il ritenerela creatività come una caratteristica universale delle persone e dei gruppi, non di esclusivo appannaggio di pochi privilegiati “artisti”.

 

6.      un porsi costantemente in ambiti interdisciplinari e, in particolare, quando queste metodiche vengano applicate in campo clinico, considerare come necessaria la collaborazione con figure professionali come quelle del medico o dello psicologo

 

Tali metodiche di aiuto e di sostegno, a volte vengono sommariamente definite “non convenzionali”, “olistiche” o addirittura “alternative”.

 

Questi termini, sia pure di uso frequente, non fanno giustizia dello spessore scientifico degli operatori qualificati del settore.

 

Tra l’altro ingenerano un equivoco, ipotizzando una collocazione di queste metodiche in un’area “altra”, lontana ad esempio dalle possibilità di verifica rigorosa e di collocazione in ambiti metodologici consolidati.

 

Nel nostro paese, come peraltro anche in tutta Europa, assistiamo ad un costante aumento della domanda in questo variegato settore, senza che a questa diffusione corrisponda un quadro normativo giuridico che definisca e delimiti queste varie aree metodologiche, i criteri formativi che le riguardino, le regole deontologiche che siano alla base del loro operato.

 

Questa crescita, anche disordinata, ha fatto sì che:

 

1.      Prima di tutto manchi, almeno in alcuni casi, una diffusa tutela dell’utenza. Sia nei servizi pubblici che in contesti privati non è raro che a praticare queste discipline siano persone che non abbiamo alle spalle un adeguato iter formativo.

 

2.      I professionisti qualificati del settore, dovendo a volte tollerare la concorrenza di operatori dall’incerta qualificazione a cui nessuno può vietare, allo stato attuale, di fregiarsi delle loro stesse competenze, assistono al costante svilimento della loro disciplina, con grave rischio anche per i livelli occupazionali nel settore.

 

In una situazione di questa complessità chiediamo alle forze politiche di elaborare un progetto che, prima di tutto definisca con precisione queste discipline, per limitare fenomeni confusivi di eccessiva sovrapposizione di aree metodologiche ormai consolidate, con la finalità di facilitare l’orientamento e la scelta da parte dell’utenza.

 

Oltre a ciò, nel quadro della tutela dell’utenza, proponiamo vengano istituiti dei Registri Regionali dei professionisti del settore, facilmente consultabili, ad esempio, via internet ,

che operino che una sorta di borsa valori della professione.

A questi elenchi potranno accedere solo i professionisti in grado di dimostrare, grazie ad un’attenta valutazione delle loro competenze, di rientrare nei requisiti stabiliti dalla legge, come, in particolare, l’aver percorso un adeguato iter formativo.

 

Nel momento dell’inserimento di queste nuove professionalità in un preciso quadro normativo e giuridico, va specificato che le loro peculiarità ne richiedono la collocazione nel settore sociosanitario, poiché le professionalità in questione non possono essere considerate di specifico né tantomeno esclusivo ambito medico o psicologico.

 

Questa scelta è ovviamente legata alla natura complessa e interdisciplinare di queste professionalità e al loro costante riferirsi alla complessità dell’ecosistema relazionale, culturale e sociale del soggetto.

 

Come ulteriore argomento a favore della nostra proposta di inserimento di queste discipline in ambito sociosanitario, sottolineiamo anche la crescente tendenza alla diffusione di un particolare aspetto nella più recente visione del benessere individuale e collettivo : in particolare, oggi il benessere non viene considerato solamente come un diritto, ma anche come un dovere del soggetto e della collettività.

 

Nel momento in cui le nostre società confermano la scelta di modelli di welfare, non è più possibile ragionare sulla malattia escludendo il problema dei costi sociali, umani ed economici delle patologie.

 

Prevenire le disabilità (a qualunque livello,) determina una inevitabile ricaduta positiva a tutti questi i livelli, per l’appunto sociali, umani ed economici.

 

La salute e il benessere non appartengono più solo all’individuo (ammesso e non concesso che mai siano appartenuti esclusivamente alla sfera individuale) e devono dunque trovare posto nel discorso sulla collettività nel suo insieme.

 

In altri termini, la collocazione di queste discipline nel settore sociosanitario risponde alla sempre più diffusa e radicata visione del benessere e della salute come doveri sociali, sia della collettività nei confronti del singolo sia del singolo verso la collettività.

 

Solo per fare un esempio specifico, pensiamo al problema degli anziani non autosufficienti. L’aumento dell’età media non sempre corrisponde infatti ad un reale benessere per tutto l’arco della vita.

 

Diffondere dei programmi di prevenzione delle disabilità legate alla senescenza potrebbe, nel quadro di un’adeguata programmazione, corrispondere ad  enormi risparmi economici da parte del Servizio Sanitario Nazionale. Oltre, ovviamente, a ridimensionare significativamente le sofferenze e i disagi degli anziani stessi e delle loro famiglie.

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